venerdì 15 luglio 2011

•Recensione: LISA SEE - Fiore di Neve e il Ventaglio Segreto (Snow Flower and the Secret Fan)

Memorie di una laotong

«Una vera signora non tollera nulla di brutto nella propria vita.
  Solo attraverso il dolore si arriva alla bellezza.
  Solo attraverso il dolore si ottiene la pace.»

Quando Giglio Bianco, la nostra narratrice, ha solo sei anni, viene colpita dalla madre con un sonante schiaffo sul volto; nonostante il bruciore e l'umiliazione subita, la bambina non prova altro che felicità, tanto da essere obbligata a mordersi le labbra per non sorridere: quella percossa serviva ad attirare la fortuna e ad allontanare gli spiriti malvagi e, a dirla tutta, era la prima vera dimostrazione d'affetto che Giglio Bianco avesse mai ricevuto dalla madre.
Al cospetto di questa scena e delle parole di Giglio Bianco il lettore rimane attonito, sconvolto e, al contempo, completamente agganciato alla narrazione. In fondo, ritrovarsi ad assistere a una madre che cresce a schiaffi la propria figlia non dovrebbe essere una novità per chi legge: Lisa See, fin dalla prima pagina, infatti, anticipa gli avvenimenti e il lettore si ritrova ad aver appreso già abbastanza nozioni riguardo i costumi delle donne della provincia cinese del XIX secolo per riuscire ad anticipare il colpo.

Per gran parte di Fiore di Neve e il Ventaglio Segreto il lettore si scopre a trattenere il respiro, a scorrere le pagine in apnea, come se il vento fosse stato risucchiato dal proprio corpo o come se stesse annegando. Qualsiasi sia il sesso di chi legge, sfido chiunque a non rimanere allibito di fronte alla prosa di Lisa See; non stiamo parlando di alta narrativa e non ci troviamo al cospetto di un capolavoro del genere: è semplicemente  ciò che c'è scritto e la semplicità con cui viene riportato a spiazzare il lettore. Con rara vividezza e sensibilità, una donna occidentale, seppur di origini orientali, riporta quello che era il mondo della Cina ottocentesca, sorvolando sulle campagne, le città e gli imperi, per catapultarci in un piccolo villaggio rurale, Puwei; oltrepassiamo la soglia di un'umile casupola e veniamo gentilmente scortati all'interno della stanza al piano di sopra, quella delle donne, dove vi rimarremmo per quasi tutta la narrazione, al cospetto delle nostre protagoniste. Non sono nè eroine nè principesse, non saranno destinate a un avvenire da guerriere o da concubine: sono, semplicemente, donne comuni.

Ed è proprio questo il punto di snodo che costituisce la forza del romanzo: Giglio Bianco, l'io narrante, non parla al lettore con un linguaggio forbito, non narra straordinarie avventure, ma rivive, ormai ottuagenaria, la propria esistenza divisa fra quotidianità e dolori domestici. Non la vedremo combattere contro draghi o vivere una vita breve ma sfolgorante; Giglio Bianco sarà portavoce, insieme a tutte le co-protagoniste, di una realtà tanto semplice quanto inconcepibile, lontana anni luce dal nostro mondo occidentale: quella descritta è la condizione della donna della Cina, determinata dalla tradizione più ferrea, in nome della quale ogni impulso verso l'auto-realizzazione è stato arginato, l'identità individuale reclusa all'interno del nucleo familiare e poi sepolta fra le pieghe cerimoniali del matrimonio combinato.

Dalle parole di Giglio Bianco impariamo da subito l'imperativo a cui tutte le bambine erano tenute ad attenersi: avrebbero trascorso la maggior parte della loro esistenza recluse all'interno della stanza delle donne, nei quartieri femminili della casa in cui gli uomini entravano di rado, uno spazio in cui poter lavorare e scambiare opinioni.
L'essenza della società confuciana si basava, infatti, su una fondamentale distinzione, quella fra nei, il regno interno della casa appartenente alle donne, e wai, il mondo esterno appannaggio degli uomini. Pensieri e azioni femminili non erano tenuti ad oltrepassare la soglia delle stanze più interne.
Altri precetti di Confucio erano volti a governare la vita di una donna, per tutto l'arco della sua esistenza. Il primo consisteva nelle Tre Obbedienze: «Da bambina, obbedisci al padre; una volta sposata, obbedisci al marito; da vedova, obbedisci a tuo figlio». Il secondo elencava le Quattro Virtù codificanti la condotta e le occupazioni di una donna: «Sii casta e arrendevole, pacata e virtuosa nei tuoi atti; tranquilla e piacevole nelle parole; fine e misurata nei movimenti; perfetta nei lavori manuali e nel ricamo».
Solo le fanciulle che, fin dall'infanzia, si attenevano a questi principi erano in grado di diventare donne virtuose.

L'intera società e persino la gerarchia familiare imponevano alla donna un imprescindibile reticolo di precetti a cui attenersi.
Ci si aspetta che una donna voglia bene ai figli appena questi le escono la ventre, eppure al lettore capiterà sovente di fare conoscenza con giovani madri deluse dalla nascita di una bambina, oppure invase da una tetra malinconia dopo aver messo al mondo un maschio. Una donna poteva amare una figlia con tutta l'anima, ma era costretta a crescerla nella sofferenza; solo i maschi potevano concentrare su di sé l'affetto profondo dei genitori, ma per la propria madre non vi sarebbe stata mai la possibilità di fare autenticamente parte della loro realtà.
Una piccola figlia istintivamente amava i genitori, che si prendevano cura di lei, nonostante fosse considerata fin dal primo vagito un "ramo secco" dell'albero familiare, un peso inutile per la gerarchia della casa, da cui sarà condannata, con il matrimonio, ad allontanarsene per sempre.

Si supponeva, inoltre, che una sposa si innamorasse del proprio marito fin dal giorno del Contratto di parentela, anche se non lo avrebbe visto in faccia per altri sei anni. Veniva a lei richiesto di voler bene ai suoceri, sebbene una giovane moglie entrasse nella nuova famiglia da sconosciuta, inferiore a chiunque altro, con un rango appena al di sopra di quello dei servi.
Una donna si doveva sposare trasferendosi in un nuovo nucleo familiare, per poi presentarsi a un marito sconosciuto e fare l'amore con lui da perfetta estranea ed infine sottomettersi ai capricci della suocera. Con un pò di fortuna, la dea concedeva come primogenito un maschio, assicurando così alla madre un rango rispettabile; in caso contrario, una donna andava incontro al perpetuo disprezzo della suocera, al dileggio delle concubine e alla delusione delle proprie figlie.
Si viveva  unicamente per soddisfare e compiacere gli altri.
I figli erano l'unico fondamento e la sola ragione di vita per una donna. Le conferivano un'identità e una dignità, insieme a protezione e sicurezza economica. La procreazione e il perpetuarsi delle dinastie, infatti, sono gli unici obiettivi che un uomo non può raggiungere se non con l'aiuto della moglie. Generando un figlio maschio, portatore del nome della propria stirpe, l'uomo realizzava il proprio supremo dovere filiale e la donna conquistava la sua massima gloria.

Queste convenzioni sociali, intestine alle famiglie, erano volte a garantire una certa stabilità in ogni provincia dell'impero, ma per le donne si traducevano in una vita di privazioni, sofferenze e violenza.
Senza dubbio, fra le varie sevizie a cui erano costrette a sottoporsi, la più agghiacciante era quella del bendaggio dei piedi, all'epoca del racconto usanza condotta ai suoi massimi eccessi e successivamente abolita da un decreto imperiale del 1902; ci vollero ben cinquant'anni affinché la pratica scomparisse definitivamente anche nelle più remote provincie rurali.
La fasciatura consisteva nel deformare la struttura ossea dei piedi della bambine in tenera età fino a ridurli a "gigli dorati", monconi lunghi dai sette ai dodici centimetri, che determinavano una andatura oscillante come quella di un fiore di loto in balia del vento.
Le dimensioni dei gigli dorati avrebbero  determinato il valore della bambina come sposa. Agli occhi della famiglia del marito, due piedi minuscoli sarebbero stati la prova dell'autodisciplina e della capacità di sopportazione, attributi essenziali per affrontare i dolori del parto o qualsiasi disgrazia disposta dal destino; due piedi minuscoli avrebbero mostrato a chiunque un'attitudine all'obbedienza e le scarpette ricamate dalla bambina stessa avrebbero confermato le abilità nelle arti domestiche. Aspetto ancor più fondamentale, i gigli dorati erano destinati ad affascinare lo sposo nei momenti più intimi, suscitando un forte impulso erotico e svolgendo un ruolo fondamentale, quindi, anche nel sesso e nella procreazione.

Questo atroce rituale, che provocava sofferenze profonde alle bambine a cui veniva sottoposto, non determinava unicamente una costrizione degli arti, ma, al contempo, strangolava lo spirito.
Soffocata dalla tradizione e dalle usanze della propria cultura, Giglio Bianco sarà condannata a una vita da reclusa, costretta, come tutte le altre donne, in un sistema di gabbie e di scatole cinesi, a cui sarebbe stato impensabile ribellarsi. L'unico spiraglio, l'unico soffio d'aria benefico all'interno della nebulosa tela del costume cinese è rappresentato dal sentimento che la piccola protagonista, per indulgente concessione del Fato, si ritroverà a provare per la sua laotong, la sua "vecchia sè stessa", la sua sorella per la vita: Fiore di Neve.

Giglio Bianco e Fiore di Neve non si conobbero fino ai sei anni, ma erano destinate ad intrecciare una sorellanza eterna per i numerosi caratteri che le accomunavano: erano nate nello stesso giorno, nel medesimo mese e anno, avevano un'identica statura, erano ugualmente belle e, soprattutto, avevano intrapreso la fasciatura dei piedi nello stesso giorno. Sarà proprio la loro amicizia, il loro legame di "anime gemelle" a permetterle di sopravvivere insieme, navigando abbracciate e unite in una vita di scoramento, dolore e reclusione. Ed è proprio della forma più spontanea e immediata dell'amore, l'amicizia, di cui sono imbevute le pagine di questo romanzo, contenenti tutti quegli elementi -la gioia, la condivisione, la complicità, l'erotismo inespresso- che danno a due amiche un potere superiore a quello di ogni altra coppia, che, a volte, neppure i mariti sono in grado di eguagliare.

L'affetto fra due vecchie sè stesse è un legame inscindibile. Il vincolo con la propria laotong ha origine da una libera scelta, l'unica, forse, che Giglio Bianco e Fiore di Neve potranno compiere nella loro vita. Nel momento in cui le due bambine dai piedi bendati si guardano negli occhi, per la prima volta, all'interno della portantina, scatta e si compie un meccanismo inarrestabile: come la favilla capace di accendere un fuoco o come il seme da cui avrà origine un'intera risaia, quel primo timido sguardo determinerà un sentimento imponderabile.
Nel corso degli anni e della narrazione, il loro affetto sarà destinato a crescere fino ad assumere le sembianze di un amore vero e profondo, germogliato e protetto grazie alla reciproca collaborazione, con duro lavoro, volontà incrollabile e favore della natura.
A cementare questo rapporto, il nu shu, la scrittura segreta delle donne, altro straordinario elemento descritto con grande maestria da Lisa See.

Secondo la tradizione cinese, gli uomini hanno il cuore di ferro, mentre le donne sono fatte d'acqua.Questa caratteristiche trasparivano in maniera molto evidente dalle rispettive scritture.
La scrittura maschile -quella, ancora oggi, adottata- possiede più di cinquantamila ideogrammi, ben diversi l'uno dall'altro, ciascuno dotato di profondi significati e differenti sfumature di senso. Il nu shu, invece, la scrittura femminile oggi ormai completamente scomparsa, contava unicamente seicento caratteri, di cui le donne si servivano foneticamente per creare circa diecimila parole.
Per apprendere e padroneggiare la scrittura degli uomini occorre una vita intera; al contrario, il nu shu veniva insegnato alle bambine in pochi anni per comunicare fra di loro ed era fondamentale ricavare il significato di ogni singolo carattere dal contesto in cui era scritto, pena atroci malintesi.
Gli uomini, in fondo, discutevano essenzialmente del mondo esterno, della letteratura, del denaro, mentre le donne non avevano altro di cui scrivere se non la realtà domestica e la vita interiore: bambini, faccende quotidiane e sentimenti erano gli argomenti prediletti dalle fanciulle come dalle vedove.

Eppure il vero scopo per cui, nel corso dei secoli, le donne svilupparono una propria scrittura segreta era un altro: al contrario di quanto le protagoniste saranno portate a credere nel comporre le loro prime missive, il nu shu non serviva a redigere bigliettini infantili da inviarsi a vicenda, infarciti delle più sterili frasi di circostanza.
Il nu shu dava alle donne -entità invisibili in un mondo di tribolazioni- una voce. Il nu shu permetteva alle donne di avvicinarsi l'una all'altra, nonostante la difficoltà nel muoversi sui gigli dorati; metteva le ali ai pensieri e costituiva una valvola di sfogo, al contrario della credenza prettamente maschile per la quale le donne non possiedono mai nulla di interessante da dire.
La società cinese ottocentesca non si aspettava che le proprie donne provassero emozioni o fossero in grado di formulare idee creative: il nu shu dava loro questa possibilità. Era in grado di rivelare la verità sulle vite di ciascuna, per quanto, anche due laotong, potessero trovarsi lontane l'una dall'altra.
Il nu shu costituirà il più luminoso raggio di speranza dell'intero romanzo, eppure, la tragica ironia della vita determinerà la sofferta conclusione delle vicende per un banale errore di lettura; le sfumature e le ombreggiature di una singola linea tracciata sulla piega di un ventaglio, trasmuteranno la storia, determinando una svolta inaspettata nel corso degli eventi.

Il racconto di Fiore di Neve e il Ventaglio Segreto è tanto inquietante quanto bello e ineffabilmente triste. Lisa See compone una novella intrisa di pura grazia femminile, che mantiene, tuttavia, gli occhi puntati su un mondo e un tempo estremamente lontani dal nostro nuovo millennio, componendo con acume e delicatezza un ritratto autentico di una cultura e di un'epoca.
E' difficile non identificarsi con Giglio Bianco e il suo disperato desiderio di essere toccata in quel luogo che comunemente chiamiamo "anima", attraverso una connessione appassionata con un'altra sé stessa - desiderio che qualunque donna, almeno una volta nella vita, si ritrova a provare.

Per quanto fosse per lei inopportuno sia desiderarlo che aspettarlo, Giglio Bianco, per tutta la durata del racconto, aspirerà all'Amore. Nei suoi anni di latte, nutrirà il sogno di vedersi amata e apprezzata dalla madre e da tutti gli altri membri della famiglia: per fare questo, si sforzerà di adeguarsi alle loro aspettative, si lascerà fasciare i piedi e non emetterà neppure un sospiro quando le verranno spezzate le ossa affinché arrivassero ad assumere una forma migliore.
Eppure i dolori più tormentosi che avrebbe dovuto affrontare sarebbero stati quelli del cuore, della mente e dell'anima. Oltre a deformarle i piedi, la fasciatura contribuirà a cambiarla radicalmente: il processo di costrizione non cesserà mai per tutto il corso della sua vita e la trasformerà dalla bambina arrendevole delle prime pagine alla donna più altolocata della contea, fino ai quarant'anni, quando la rigidezza dei suoi gigli dorati si trasferirà al suo cuore, talmente aggrappato alle ingiustizie subite e ai risentimenti accumulati, tanto da impedirle di perdonare colei che arriverà ad amare più di ogni altra cosa al mondo: la sua laotong.

Giglio Bianco, nel narrare la propria storia, scorre le pieghe del ventaglio a cui lei e Fiore di Neve affidarono grazie al nu shu i loro pensieri più intimi e, attraverso il filtro dei suoi ricordi, il lettore è in grado di ricostruire una vita intera, dove, al termine di tutto, l'amicizia rimane la costante sempiterna, fondamentale e indissolubile.
La prosa traslucida di Lisa See brilla della bellezza del XIX secolo e della cultura cinese, ma al contempo ci fa bruciare di indignazione per la sua bruttezza sessista e le ingiustizie perpetrate. Portando alla luce il mondo segreto di queste donne comuni, Lisa See evoca un'umanità aliena che, forse, è la migliore da perdersi, ma non certo da dimenticare.

Nessun commento:

Posta un commento