sabato 25 giugno 2011

•Recensione: DAVID NICHOLLS - Le domande di Brian (Starter For 10)

The Man with the child in his eyes.

Ah, ardua la vita da giovani matricole! 
E' il 1985, siamo in Inghilterra e Brian Jackson pensa che nella vita non otterrà più nulla di veramente buono, nobile e puro come i risultati agli esami delle secondarie. Tuttavia, alle soglie dell'Esperienza Universitaria, l'eccitazione sgomina senza difficoltà i tormenti adolescenziali  e Brian è pronto per affrontare il rituale mistico e ancestrale che segna il passaggio dalla spensierata giovinezza alla matura e indipendente  consapevolezza dell'età adulta. E quale miglior approdo se non un prestigioso college di Bristol può garantire il corretto sbocciare delle speranze di un giovane talentuoso, saturo di voglia di vivere?

Brian Jackson sembra saperlo davvero bene. Aspetta con ansia l'autunno e nelle prime pagine, narrate dal suo effervescente e squisitamente ironico punto di vista, ci regala una visione molto edulcorata della vita universitaria che lo aspetta.
In fondo, qualunque giovane può essere sorpreso ad immaginare la gioia di andare a lezione prendendo a calci le foglie in un panorama settembrino e rigorosamente british, o l'idillio nel discutere appassionatamente di poesia metafisica con una ragazza affascinante di nome Emily, Catherine o, perché no, Alice, ovviamente dotata di un'intelligenza fervida, di un sorriso smagliante e di un adorabile caschetto alla Sophie Marceau. E, ancora, vogliamo togliere a questo giovane di belle speranze la possibilità di fantasticare sul  cruciale seguito nella mansarda dell'affascinante interlocutrice, a fare l'amore per ore e ore davanti al caminetto elettrico? Certo che no. E per completare l'atmosfera da cartolina, basta aggiungere qualche verso di T.S. Eliot, un porto d'annata e la musica di Miles Davis. 
Ma ritorniamo con i piedi per terra.

Senza dubbio quell'autunno dell'85 è un momento molto importante per Brian Jackson: una svolta sta arrivando; ma alla lirica immagine del diciottenne strappa-vesti, sostituiamo quella di un riflessivo e timido ragazzo di provincia, orfano di padre e oberato dagli interrogativi tipici dell'età: chi sono, cosa faccio, dove andrò.
Come molti suoi coetanei Brian è un goffo sbarbatello, sinceramente imbarazzato dalla madre eccessivamente apprensiva che, dopo la morte del marito, ha allevato l'unico figlio maschio tirandosi su con il whisky. E neanche Brian scherza da questo punto di vista. Ha trascorso i suoi ultimi anni di vita dilapidando tonnellate di tempo -e denaro- ubriacandosi nei pub e inseguendo amori fatui e impossibili, lasciandosi cullare dalle romantiche note delle sua amata Kate Bush
I suoi compagni di bagordi sono Spencer e Tone, rispettivamente "quello tosto" e la reincarnazione di Conan il Barbaro, che lo trattano come un disagiato gay lord. Entrambi, infatti, hanno mollato gli studi e vivono la propria gioventù sbrucciacchiata fra furtarelli, sbronze, risse e lavoro in nero. Fra di loro Brian, completamente immerso in una realtà tipicamente post-puberale e continuamente intento a destreggiarsi fra ansie, turbe, tremori e ormoni. I risultati, a dirla tutta, sono abbastanza scarsi. Per la gente che lo circonda, i suoi difetti sembrano superare in gran misura i pregi; l'atroce acne, il senso dubbio di un umorismo terrificante, l'inesperienza sessuale e la costante capacità di ficcarsi in situazioni estremamente imbarazzanti, rendono Brian una sorta di freak, un concentrato di potenzialità intrappolate in un guscio eccessivamente goffo e ingombrante, che neanche un look alla Graham Green sembra riuscire a scalfire. 
E l'esperienza universitaria non sembra migliorare le cose. Anzi.

A Bristol Brian si trova intrappolato in una stanzetta minuscola, inutilmente impreziosita dal suo personalissimo futon (un materasso appoggiato per terra), costretto a dividere l'alloggio con due inutili, odiosi e conservatori  Tory, sputati fuori da chissà quale scuola privata e con un debole viscerale per gli sport estremi e la birra fatta in casa. 
Già dalla prima serata, che lo vede protagonista di un party di dubbia moralità dal tema "Preti e Puttanelle", Brian farà esperienza dei suoi compagni di college, talvolta inquietanti (vedi Chris, l'hippie dalle mani luride), oppure mostruosamente ridicoli, o ancora belli, vincenti e sempre a loro agio. E soprattutto Brian conoscerà due donne.  

La prima è Alice Harbinson, la più straordinaria, intelligente, sensuale, affascinante ragazza dell'intero pianeta - ovviamente dal punto di vista di Brian - , biondissima reincarnazione di Barbie, volitiva ma affettuosa, che però non sembra completamente ricambiare l'affetto di Brian. Almeno, non quel genere di affetto. Bellissima, ricca, spigliata e sessualmente attiva, Alice, per tutto il romanzo, sarà il più lucente pensiero fisso di Brian, che sarà tuttavia strappato in malo modo dalle proprie fantasie erotiche da Rebecca Epstein, il suo esatto opposto.
Bruna, scontrosa e problematica, Rebecca è ebrea e marxista convinta, politicamente impegnata, dotata di un'intelligenza notevole e di una dialettica tagliente; la brillante Rebecca lascerà, infatti, spesso e volentieri il povero Brian senza parole, fatto che la porterà a maturare l'idea di trovarsi di fronte un essere biologicamente arretrato, verso il quale inizierà però a provare un'insana attrazione.

Così inizia l'avventura universitaria di Brian e chiunque sia un pò pratico di anni ottanta, coglierà infiniti riferimenti a tutto ciò che, in quell'epoca, era utile a un diciottenne sbarbatello per darsi una parvenza di intellettualità. Brian, in giacca di velluto e camicia da nonnetto, tappezzerà accuratamente il suo alloggio con cartoline di James Dean, Che Guevara e Beckette, pontificherà sentenze demagogiche su La corazzata Potëmkin e citerà fino alla nausea qualsiasi aforisma di Donne, Eliot o Fitzgerald - un bel colpo assegnato da Nicholls per accattivarsi tutti i lettori nostalgici. 

Fra sogni di gloria e lezioni soporifere, Brian si troverà, oltretutto, a dover affrontare la televisione: verrà infatti selezionato -in maniera più o meno lecita- per partecipare al famoso gioco a quiz University Challenge, ritrovandosi catapultato all'interno di un bizzarro  gruppo di geeks, con un caposquadra isterico e vanesio; perché Brian è imbranato e grottesco, ma ha un talento particolare nel rispondere agli strampalati quesiti dei quiz, grazie alla sua memoria di ferro e a una discreta cultura generale. Una qualità tanto notevole, quanto inutile.

E' proprio il significato della vera intelligenza a costituire il tema portante del romanzo e a determinare il percorso "di formazione" di cui Brian sarà protagonista.
Da una parte c'è Alice, sfavillante portavoce della upper class, colei che non si è mai veramente impegnata nella vita, ma che ha ottenuto tutto ciò che voleva grazie alla sua bellezza e alla sua fortuna. Alice è una vincente, maliziosamente ingenua, talmente concentrata su sé stessa da non accorgersi del dolore che arriva a procurare a chi le sta vicino. E' semplicemente bella e, come ripeterà sovente Brian, sa di esserlo
Con poche mosse ben piazzate e il giusto numero di sorrisi zuccherosi è in grado di accattivarsi qualunque uomo in circolazione, è popolare, spigliata, sempre a proprio agio, apparentemente invincibile... ma è questa la vera intelligenza? 

Poi vi è Brian, imbranato come pochi e sinceramente imbarazzante, ma non stupido. Infatti -quando è sobrio- nessuno è pronto a mettere in dubbio le sue conoscenze, che gli permettono di diventare l'asso nella manica della squadra di University Challenge. Eppure possiamo definirlo intelligente?Brian conosce tantissime cose: sa qual'è il nome latino dei comuni volatili domestici inglesi, le capitali di tutti gli Stati del mondo, conosce a memoria il teatro di Shakespeare, i romanzi di Dickens e ogni singola parola di qualunque canzone che Kate Bush abbia mai inciso. Ancora, riesce a destreggiarsi fra le conoscenze più disparate, dalle mogli di Enrico VIII alle rocce magmatiche, dal significato delle parole "albedo" e "peripatetico" alla differenza fra fissione e fusione nucleare; eppure le cose più importanti e semplici come l'amicizia o l'amore, oppure, semplicemente, la capacità di essere decorosi, dignitosi e felici, sembrano essere totalmente al di fuori della sua comprensione. Brian è un totale disastro nel campo delle relazioni umane, come avrà occasione di accorgersi nel corso del romanzo, ma le lezioni più importanti da questo punto di vista non gli verranno impartite dalla "vincente" Alice, ma da Rebecca

Il rapporto di Brian con Rebecca servirà a Nicholls per evidenziare abilmente la differenza fra la vera intelligenza -quella della ragazza- e la mera acquisizione di conoscenze. Con Rebecca, Brian discuterà di politica, classi sociali, ingiustizie e amore frustrato e imparerà a difendere sé stesso, la propria natura e le proprie scelte. Al contrario, il rapporto con Alice e la sua borghesia troverà Brian condannato fin dall'inizio - sarà un fiasco dietro l'altro, mentre lei sembrerà provare unicamente pietà per lui, trovandolo, tuttavia, piuttosto divertente. Accecato dalla bellezza della ragazza, il nostro protagonista incasserà colpi su colpi e, credetemi, la visita al cottage degli Harbinson sarà quasi dolorosa da leggere.

L'esperienza universitaria di Brian sarà quindi ben lontana dall'iniziale visione idilliaca e la transizione all'età adulta non si rivelerà solo difficile, ma anche alquanto dolorosa. La sua narrazione ci rappresenterà un infinito susseguirsi di amicizie incasinate, occasioni sprecate, conversazioni fatue, giornate gettate al vento, osservazioni stupide e battute inopportune, che renderanno impossibile non provare almeno un minimo di simpatia per un protagonista così incredibilmente umano. 

Un'avventura, quella di Brian, dolce-amara, ma piacevolissima da leggere, anche solo per il tono scanzonato e la straordinaria autoironia con cui ci viene presentata. Siamo ancora ben lontani dalla lucida e complessa ribellione di Holden, oppure dalla raffinata giocosità umoristica di Hornby, e non ci troviamo neppure di fronte al nerbo socio-politico di Coe, ma, senza dubbio, come esordio non è niente male e Nicholls si dimostra uno scrittore di vero talento, dotato di autonomia, vitalità e sufficiente originalità.
Le domande di Brian si legge molto velocemente e restituisce perfettamente il sapore di un'età e di un ambiente ben precisi; scorre semplice e leggero, come un bel programma televisivo -Nicholls nasce come autore per la BBC!- , divertente, incisivo e scintillante. Manca, tuttavia, la profondità di una visione a tutto tondo, che, probabilmente, la lettura dell'opera più famosa di David Nicholls, Un Giorno, sarà in grado di regalare.
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Nelle immagini:
Screenshot from Starter For 10 (2006) - Directed by Tom Vaughan
1) Starter for 10 - Poster
2) James McAvoy
3) James McAvoy as Brian Jackson
4) James McAvoy as Brian Jackson, Benedict Cumberbatch as Patrick Watts and Elaine Tan as Lucy Chang
5) Alice Eve as Alice Harbinson, James McAvoy as Brian Jackson and Rebecca Hall as Rebecca Epstein
6) University Challenge group
7) James McAvoy as Brian Jackson and Elaine Tan as Lucy Chang
8) James McAvoy as Brian Jackson and Rebecca Hall as Rebecca Epstein
9) Elaine Tan as Lucy Chang, Alice Eve as Alice Harbinson and James McAvoy as Brian Jackson

lunedì 20 giugno 2011

•Recensione: TRACY CHEVALIER - Strane Creature (Remarkable Creatures)


«La nuova vita è formata da estinzione e morte», annotava Charles Darwin nel 1838, in un taccuino privato. Circa vent'anni dopo, il celebre biologo fonderà il proprio capolavoro letterario, L'origine delle specie, proprio sulla teoria di come i fossili documentino una continuità di forme di vita, dimostrando come milioni di specie preistoriche si estinsero e altrettante presero il loro posto. Una generazione prima, tuttavia, mentre la scontrosa eroina in gonnella di Tracy Chevalier stava facendo ingenuamente riaffiorare dalle scogliere di Lyme Regis, con le sua mani di bambina, le prove che avvallavano tale intuizione, nessuno, neppure fra i più insigni intellettuali, era disposto a credere che Dio non fosse mai stato in grado di pianificare il destino di ogni singola specie del Creato.

Riportando alla luce il primo esemplare di ittiosauro mai studiato prima di allora, Mary Anning, questo il nome dell'eroina - personaggio realmente esistito, cambiò per sempre il nostro modo di vedere il mondo. All'improvviso era apparsa davanti agli occhi dell'umanità una creatura misteriosa, di cui non era mai stata rilevata alcuna tracca sulla terra: un gigantesco mostro marino che non esisteva più da tempo memorabile, una specie estinta. Una scoperta apparentemente insignificante fece nascere il dubbio che in realtà il mondo si trasformasse, anche se molto lentamente, e che fosse soggetto a cambiamenti, invece di rimanere sempre uguale a sè stesso. Un dotto scozzese, James Hutton, aveva già affermato che il mondo non aveva né inizio, né fine, ipotizzando una sua origine talmente remota, tanto da impossibilitare gli scienziati a calcolarne l'esatta data. Hutton, già allora, credeva che il nostro pianeta fosse stato scolpito dall'azione dei vulcani; altri ancora ipotizzavano che l'avesse plasmato l'acqua. Solo nei tempi più prossimi alla scoperta della Anning i geologi combinarono entrambe le teorie, sostenendo che a modellare la terra non fu altro che un susseguirsi di cataclismi: il diluvio universale della Genesi non sarebbe stato che il più recente.

Il biologo francese Georges Cuvier -citato in abbondanza nel libro della Chevalier- estese, per primo, tale riflessione al mondo delle specie viventi: animali e creature erranti possono scomparire se non più idonee a rimanere al mondo. Tale ipotesi, che l'uomo moderno trova pressoché scontata, sconvolse l'opinione pubblica e popolare di inizio Ottocento; si trattava di un'idea inquietante, che metteva in discussione secoli di teologia, in quanto implicava che esistesse un Dio creatore del mondo, ma che, terminata la sua opera, se ne fosse completamente disinteressato, rimanendo impassibile a guardare come creature da lui generate si estinguessero e abbandonassero per sempre gli oceani e le terre del globo. Finché questa congettura riguardava antichi coccodrilli pinnati del Giurassico non risultava così spaventosa da terrorizzare anche i cuori dei fedeli più accaniti... ma se tale destino fosse toccato alla specie umana?

Una versione più edulcorata della teoria dell'estinzione viene presentata da alcuni personaggi del romanzo della Chevalier - ad esempio il mediocre collezionista Lord Henley; tali personalità erano convinte di come l'ittiosauro di Mary Anning non fosse altro che un modello difettoso, una versione abbozzata di coccodrillo che Dio avrebbe scartato in un secondo momento, eliminandolo dalla faccia della terra grazie al diluvio universale. Tuttavia anche tale teoria implicava come Dio potesse compiere degli errori e contemporaneamente sentisse il bisogno di correggerli, facendo crollare irrimediabilmente l'impalcatura di onniscenza e perfezione su cui migliaia di religioni e filosofie avevano edificato le proprie congetture.
E allora come fare? La maggior parte delle persone -vedi il buon reverendo Jones- , soprattutto di estrazione umile e popolare, optarono di plasmare la propria visione del mondo su quanto la Bibbia esprimeva alla lettera: Dio creò il mondo e tutte le sue creature in sei giorni e ogni cosa rimase esattamente come allora, nulla è andato perduto. Di fronte alle vertigini provocate da milioni di anni di storia, scelsero di pensare che il mondo avesse appena seimila anni, secondo l' "illustre" calcolo del vescovo Ussher, ignorando qualsiasi altra affermazione e bollandola come eretica.

E' in questo humus esistenziale che nasce, cresce e risplende Mary Anning, un nome più volte trascurato, ma che identifica quella che, probabilmente, fu la più grande cacciatrice di fossili mai esistita.
Nata nel 1799, Mary Anning, secondo la tradizione, da bambina sopravvisse alla caduta di un fulmine; in mezzo alla tempesta una luce accecante, un frastuono di alberi caduti, un lampo abbagliante che squarcia le tenebre, l'odore della carne bruciata, un ronzio attraverso il corpo. La donna che la teneva stretta fra le braccia morì, ma Mary sopravvisse e, da bambina tranquilla e malaticcia, divenne una ragazzina ribelle, scaltra e brillante. Leggenda o realtà che fosse, ciò che è certo è che Mary Anning possedeva un talento tanto straordinario quanto inquietante per la ricerca dei fossili, tanto che in suo onore fu coniato il celeberrimo scioglilingua anglofono «She Sells Sea Shells on the Sea Shore».
Iniziata dal padre ebanista alla nobile arte della raccolta di "ninnoli", Mary, a soli dodici anni, nel 1811 - Darwin era solamente un bambino di appena un paio di anni- fece la sua prima straordinaria scoperta, l'ittiosauro, la "lucertola pesce", il rettile marino del Giurassico che scosse le fondamenta del mondo scientifico. Fu da questo momento che gli scienziati bussarono alla porta della povera famiglia Anning, oberata dai debiti dopo la morte del capofamiglia Richard, caduto da una scogliera mentre cercava fossili per pagarsi il pane e il carbone e in seguito morto di tisi.

Nonostante le origini miserabili, il talento di Mary non potè essere ignorato e le sue scoperte permisero a diversi scienziati -uomini, ovviamente- di conquistarsi, grazie alle loro teorie, un posto nella Storia; per non parlare dei collezionisti, che arricchirono i propri musei di ciarpame, con i preziosi "ninnoli" di Mary Anning.
Uno dei temi centrali di Strane Creature sono, infatti, le barriere invalicabili che, all'epoca ma non solo, determinavano una gerarchia talmente cristallizzata, tanto che era impossibile per una "stracciona di provincia" permettersi una qualsiasi mobilità sociale, nonostante tutti gli straordinari talenti che potesse avere.
E il primo forte contrasto è quello rappresentato proprio dai "cacciatori" di fossili e dai meri collezionisti, in grado unicamente di stilare papiri di cose che desidererebbero procurarsi, riempiendo le proprie vetrine di curiosità frutto di ricerche altrui. Per i collezionisti le rocce sono tutte uguali e le scogliere sono noiose, come una mostra di quadri scadenti. Basta a loro trovare un frammento di ammonite o una squallida grifea per sentirsi dei veri esperti; non nutrono alcun eccessivo interesse per i fossili: sanno semplicemente che vanno di moda e tanto basta a gratificare la loro vanità.
I cacciatori come Mary Anning, invece, lottano duramente per le loro conquiste; trascorrono ore e ore, giorno dopo giorno, anno dopo anno, davanti al mare, con ogni tempo e con qualsiasi temperatura. Alle vanitose mani vellutate dei collezionisti, si contrappongono dita screpolate, facce scottate dal sole, capelli arruffati dal vento e occhi perennemente strizzati, irritati dalla polvere e dal sole. La sera, i cacciatori come Mary Anning, rincasano con le vesti sudice e la febbre da insolazione, spesso senza aver trovato nulla, ma non sono le mani vuote a scoraggiarli. Accolgono con entusiasmo ogni dono che le scogliere hanno loro da offrire e ringraziano Dio ad ogni nuova scoperta. Purtroppo essere cacciatrici e pure donne è una condizione necessaria e sufficiente per vanificare la propria autostima: le teorie e la scienza vengono scritte dagli uomini sulle riviste, mentre a una cacciatrice è dato solo il privilegio di leggerle.

Eppure il talento unico di Mary Anning riuscirà a rompere anche le più restrittive convenzioni, seppur con la fatica di anni e il sudore di numerose scoperte. Capace di raffigurarsi la sagoma di un animale vissuto milioni di anni prima osservando unicamente i frammenti ossei, verrà successivamente definita dall'esploratore tedesco Ludwig Deichart «la principessa della paleontologia». Nel 1824, Lady Harriet Silvester rincara la dose scrivendo nel suo diario privato «Meraviglioso esempio del favore divino, quella povera ragazza ignorante... grazie alle sue letture e alla sua diligenza, è arrivata a un grado di conoscenza tale da potersi intrattenere con professori ed altre persone competenti, e tutti riconoscono che ne capisce più di scienza di chiunque altro nel regno».

In effetti, Mary Anning era tutto fuorché ignorante. Impara a leggere, annota e critica articoli scientifici, apprende l'anatomia sezionando pesci e seppie, in modo da trovare similitudini con le specie estinte.
A ventisette anni apre l'Anning's Fossil Depot, assistita dall'amica e collaboratrice Elizabeth Philpot - seconda protagonista del romanzo della Chevalier -, e riceve l'onore di vedere assidui visitatori in celebrità come re Federico Augusto II di Sassonia, fino a illustri "fossilisti" del museo di storia naturale di Londra o di New York; come non ricordare, infatti, il geologo Charles Lyell, futuro protettore di Charles Darwin, o William Buckland, il reverendo che le resta amico fino alla morte, o ancora Henry Thomas de la Bèche che le dedica l'acquerello Duria Antiquor - tutte figure che appaiono anche in Strane Creature

Le scoperte della Anning non si limitano agli ittiosauri e ai plesiosauri: nel 1829 trova il rettile volante che Buckland ribattezzerà pterodattilo, che confermerà le ipotesi di Georges Cuvier secondo cui vi era stata un'era in cui i rettili dominavano terra, mare e cieli. Infine rinverrà i resti del primo squalorazza riconosciuto come tale e, sempre insieme a Buckland, dimostrerà come i bezoari altro non fossero che feci fossili di dinosauri. Gli specialisti riconoscono le sue scoperte, tent'è che danno il suo nome a numerose specie, ma è già troppo per una popolana. 
Mary Anning morirà a 47 anni di cancro al seno; De la Bèche, presidente della Geological Society - in cui, per tutta la vita, a Mary fu proibito persino di entrarvi, in quanto donna - ne pronuncerà l'elogio funebre davanti all'assemblea.  


Tutto ciò è raccontato, seppur in forma rimaneggiata e romanzata, da Tracy Chevalier in Strane Creature che, aldilà dei meri fatti storici, si dimostra un tentativo più o meno riuscito di elevarsi a testimonianza di un'epoca e a racconto di rottura di convenzioni.
Quella di Tracy Chevalier è essenzialmente una storia di "Remarkable Creatures". Il termine "remarkable", in inglese, ha una doppia accezione: può sia essere riferito a qualcosa di eccezionale o notevole, ma contemporaneamente presentare la sfumatura negativa di insolito o sospetto. "Remarkable" non sono solo i fossili, che contemporaneamente suscitano terrore e fascino nell'umanità di inizio ottocento, ma lo sono anche le due protagoniste, Mary Anning ed Elizabeth Philpot, che incarnano un ideale di donna avulso da quanto era la convezione dell'epoca
Mary è giovane, ribelle, anticonformista e cocciuta, disinteressata a quanto la gente ha da dire sul suo conto, è la ragazza appassionata con i fulmini nelle ossa; Elizabeth, invece, è la voce della donna matura, il cui destino di zitella è segnato da un aspetto severo e ingrato e da un carisma intellettuale troppo avanzato per essere una sposa, fin troppo consapevole di quanto la società, anche di un piccolo paesino, può essere crudele.

Tracy Chevalier immerge queste due protagoniste in un ambiente che, a tutti gli effetti, possiamo definire "austeniano". E i riferimenti a Jane Austen sono davvero molti.
La situazione iniziale delle vicende, infatti, è familiare a quella di Sense & Sensibility: troviamo una ragazza borghese, irrimediabilmente condannata a rimanere zitella, che viene spedita a vivere più a buon mercato altrove, dal fratello neo-sposo che, guarda caso, si chiama John. Elizabeth e le sue sorelle, Margaret (!) e Louise, si stabiliscono a Lyme Regis, località balneare della contea del Dorset, ed è qui che incontrano Mary Anning e i suoi fossili.
Omaggi alla cara Jane piovono ancora a profusione; Margaret, ad esempio, è una profonda ammiratrice delle sue opere e asserisce di averla incontrata al circolo del paese, che è solita a frequentare. Il fatto non stupisce particolarmente: infatti Tracy Chevalier, nella postfazione, afferma come sia documentato un passaggio di Jane Austen a Lyme Regis nel 1804, durante il quale la celebre autrice avrebbe fatto conoscenza di Richard Anning, padre di Mary, in qualità di ebanista, per chiedergli un preventivo per la riparazione di un baule. Tuttavia «stando alla lettera che inviò a sua sorella, la Austen giudicò la cifra esorbitante, tanto che si rivolse a un altro artigiano».
Nonostante i continui richiami all'adorata Jane, Tracy Chevalier opera un capovolgimento laddove arriva a presentarci due donne che nel cuore dell'Ottocento non hanno bisogno di un uomo per vivere e che dedicano la loro intera esistenza alla paleontologia, ai fossili e agli animali estinti e che, per un bisogno interiore, sono in grado di costruirsi la propria cultura da sole. 

Senza dubbio il forte riferimento a vicende storiche realmente accadute costituisce il principale motivo di interesse del romanzo, come anche la metafisica contrapposizione fra creazionisti e evoluzionisti, che nell'Ottocento stava appena iniziando a prendere piede.
I personaggi sono interessanti, ma le vicende molto ripetitive: c'era da aspettarselo. La stessa Chevalier, sempre nella postfazione, infatti scrive: «l'atteggiamento nei confronti del tempo invalso nel ventunesimo secolo e ciò che oggi ci aspettiamo solitamente da una storia sono molto lontani dalla vita reale di Mary Anning. Mary la spese, giorno dopo giorno, anno dopo anno, facendo sempre le stesse cose negli stessi posti. Ho cercato di condensarne gli eventi in una narrazione che non abusasse della pazienza del lettore».
Non c'è molto posto per l'amore in Strane Creature, ma ve n'è per l'amicizia, il sentimento più profondo e, forse, meglio caratterizzato dell'intero romanzo. Ovviamente -Austen, anche qui, insegna- non manca un lieto fine, abbastanza felice, che pone termine alle tribolazioni e che garantisce alle protagoniste una lunga e allegra esistenza in comunione, ma che lascia parzialmente appagato il lettore, a cui, al termine del libro, rimarrà soltanto un retrogusto salato e un pò di polvere di argilla sulle dita.
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Nelle immagini:
1) Lyme Regis - Dorsetshire (thanks to cuffbertt)
2) Ammonite (thanks to theunchartedwastes)
3) Mary Anning with her dog Tray, painted before 1842
4) Ittiosauro Fossile
5) Storm Series (thanks to littlemewhatever)
6) At the Seaside (thanks to Julanna)
7) Talking to the Butterflies (thanks to dim-baida)
8) ... (thanks to kannagara)

giovedì 16 giugno 2011

•Speciale: Suicide Girls - CLEOPATRA

Dopo un'imperdonabile, ma inevitabile, latitanza, Handwritten ritorna attivo, con la speranza che si mantenga tale almeno per un paio di mesi. 
Come già annunciato da tempo memorabile, oggi si inaugura un nuovo speciale dal titolo "Suicide Girls". L'idea nasce dal progetto fotografico condotto da Angelo Cricchi del Lost & Found Studio "Gloomy Sunday", esposto in anteprima mondiale al HYPERLINK Mak Museum di Vienna in occasione del "9th - Festival for Fashion & Photography". 
Il titolo è tutto un programma: trae spunto da una canzone ungherese degli anni '30, resa mondialmente celebre da artiste come Billie Holiday, Bjork e Sinead O'Connor, a suo tempo bandita dalle radio inglesi e americane con l'accusa di stimolare gli ascoltatori al suicidio.
 La colonna sonora perfetta per ciò che Angelo Cricchi si apprestava a realizzare.
I ritratti immaginifici e accigliati che compongono "Gloomy Sunday" non sono altro che la rappresentazione di alcune fra le tante celebri donne che hanno lasciato un segno indelebile nella storia dell'umanità, protagoniste di una vita complessa, sotto i riflettori o ai margini della società, ma che hanno tutte in comune una fine amara, la scelta indiscutibile e irrevocabile di annientare sé stesse con un suicidio
Sono donne del cinema, della musica, della letteratura, della storia, muse immortalate nel loro tragico gesto, come Sylvia Plath, Virginia Woolf, Capucine e Diane Arbus, ma anche donne immaginarie nate dalla fantasia di grandi scrittori come la Emma Bovary di Flaubert o l'Ophelia di shakespeariana memoria.
A metà fra il reale e l'immaginario, la memoria di queste donne straordinarie riemerge prepotente dalle più oscure pagine della storia e ne celebra la natura sofisticata, poetica e irrimediabilmente tragica.

Anche Handwritten, nel suo piccolo, ha deciso di rendere omaggio ad alcune di queste figure indimenticabili, tracciandone un ritratto, si spera, il più veritiero possibile, volto a celebrare queste conturbanti eroine non nella loro ultima e drammatica scelta, ma nella forza appassionata della loro vita e della loro arte. 
La prima a cui il blog decide di rendere omaggio è Cleopatra, l'ultima regina del Nilo, la suicida per eccellenza, che dopo infiniti secoli di storia riesce ancora ad affascinare con il mistero della sua bellezza e della sua morte. Sperando che questo tuffo nel passato vi sia gradito, Handwritten riapre le porte e spera di sapervi, ancora una volta, deliziare o, quantomeno, interessare.

Cleopatra: The Life Behind The Name

Nata nel 69 a.C., Cleopatra fu l'ultima regina della dinastia tolemaica, la più celebre sovrana d'Egitto, entrata così prepotentemente nella storia grazie al fascino, al carisma e all'ambizione che ne caratterizzarono la personalità; una donna che raggiunse e conquistò i cuori di alcuni fra i protagonisti del più grande impero dell'antichità, ricordata da molti con parole di ammirazione per la sua audacia, l'indiscutibile bellezza e la fervida intelligenza, e da altri ancora per la sua natura spregevole, immorale e perfida. 

Esimie personalità antiche la ricordano in tutto il suo fascino seduttivo; Plutarco, ad esempio, scrive: «aveva una voce dolcissima simile ad uno strumento musicale con molteplici corde in qualunque idioma volesse esprimersi», mentre Dione Cassio rammenta come la sua conversazione avesse un fascino irresistibile, «e da un lato il suo aspetto, insieme alla seduzione della parola, dall’altro il suo carattere, che pervadeva in modo inspiegabile ogni suo atto quando si incontrava col prossimo, costituivano un pungiglione, che si affondava nel cuore».
Non tutti gli storici antichi sono però concordi nell'esaltare le qualità di Cleopatra, assurgendola a reincarnazione della divinità Iside. Cicerone, infatti, narra che il giudizio dei Romani non era affatto benevolo nei confronti della regina, Dante la descrive, nel girone dei lussuriosi, come «rapace, crudele e lasciva» e Shakespeare la demonizza appellandola come «il serpente del Nilo». Difficile dunque stabilire quale sia la fonte più attendibile e, fra adoratori e detrattori, la storia fatica a dipingere un ritratto autentico di questa donna, amata e odiata, dall'educazione poliglotta e dalla cultura cosmopolita, dotata di una personalità talmente appassionata e orgogliosa al punto da scegliere il suicidio anziché l'umiliazione davanti a Roma

Cleopatra per secoli fu accusata di essere stata donna di facili costumi, senza scrupoli e ambiziosa fino agli estremi, tentatrice, simbolo di lusso e corruzione, ma è ormai assodato come la disinformazione storica contribuì a crearne un falso mito negativo. La "macchina del fango", infatti, non conosce età e contribuì a dipingere questa donna come una "femme fatale" manipolatrice di uomini, quando in realtà gli unici amori storicamente riconosciuti sono solo due, Cesare e Antonio, e seppur altri avrà amato, ciò non la rende peggiore di molte matrone romane del suo tempo. 
La prima a scatenare maldicenze contro la regina fu la Roma dei salotti, invidiosa del coraggio e della temerarietà di Cleopatra, in grado di conquistare il cuore di un imperatore come Cesare, e in seguito la pessima propaganda di Ottaviano ne tramandò l'ambigua immagine di donna brutta, dal  naso mostruoso e dalla bocca ghignante, come dimostrano le incisioni sul dorso di alcune monete dell'epoca.

Ma Cleopatra era davvero bella? Le poche raffigurazioni attendibili a cui possiamo attenerci le attribuiscono  un volto ovale, grandi occhi e una bella bocca con le labbra rivolte leggermente in giù, una bellezza dal profilo greco, segnato dal naso aquilino che le conferiva autorevolezza. Fonti antiche, inoltre, tramandano la sua natura di donna minuta, che amava giocare molto sul suo aspetto di donna-bambina.
Senza dubbio il carisma e l'intelligenza di cui era dotata affascinavano più della bellezza pura. Cleopatra era una donna elegante, vestita alla maniera greca o egiziana a seconda delle occasioni, che impose uno stile personale e inconfondibile nei salotti romani che si trovò a frequentare durante il suo soggiorno nella capitale. La sua cultura era notevole: conosceva sette lingue ed era l'unica fra i Tolomei a esprimersi nell'idioma locale egizio. Abile statista, in politica ambiva a rendere indipendente l'Egitto e proprio per questo arrivò ad allearsi con Roma, sfruttando le sue armi di seduzione con i più potenti uomini dell'epoca. Con la forza dell'Amore tentò di creare un comune e immenso impero, riuscendo a conquistare il cuore sia di Cesare che di Marco  Antonio, per poi cadere nelle braccia di un terzo uomo, Ottaviano, il quale ne decretò la dipartita.

La dinastia tolemaica termina ufficialmente nel 30 a.C., anno della morte di Cleopatra, in seguito alla quale l'Egitto diventa a tutti gli effetti un dominio romano. Quello che un tempo era stato il grandioso impero dei faraoni, il faro della civiltà ellenistica, si disgregò davanti alla potenza romana, perdendo, con la morte della sua regina, anche tutta la cultura, il sistema di valori, il modo di vivere e di intendere la vita tipico dei signori del Nilo.
Non a caso, il nome di Cleopatra segnò più destini infelici: le sei omonime regine che la precedettero furono protagoniste di eventi tragici fino a lei, la settima, morta suicida.

Figlia di Tolomeo XII Aulete e, probabilmente, della sorella Cleopatra V, fu l'ultima discendente della dinastia  greco-macedone dei Tolomei, sul trono d'Egitto dalla conquista di Alessandro Magno; nonostante il governo plurisecolare, tuttavia, la dinastia tolemaica fu facilmente piegata dalla potenza di Roma, alla quale già da tempo il faraone pagava un obbligato tributo. All'epoca dell'ascesa di Cleopatra, la sopravvivenza dell'Egitto era dunque legata a doppio filo a Roma e alle sue lotte politiche interne.

Nel 51 a.C., alla morte di Tolomeo XII, Cleopatra, appena diciottenne, salì al trono sposando, secondo la tradizione, il fratello Tolomeo XIII. Ben presto la sua abilità politica e la sua sete di potere si scontrarono con il fratello-sposo, mentre sull'altra sponda del Mediterraneo si combatteva la guerra civile fra i partigiani popolari di Cesare e i repubblicani di Pompeo, conflitto che si concluse con la vittoria dell'imperatore a Farsalo nel 48 a.C. 


Probabilmente Cleopatra rimase affascinata dalla fama dell'allora cinquantenne Cesare e decise di incontrarlo.
Lasciati i suoi mercenari a Peluso, si diresse in incognito verso Alessandria e, per evitare eventuali sicari di Pontinio, chiese al suo fedele servo Apollodoro Siculo di avvolgerla dentro un tappeto (da qui si ravvisa quanto la regina potesse essere minuta!) e in questo modo, indisturbata, raggiunse le stanze private di Cesare. Grande fu la meraviglia del condottiero quando, al momento di ritirarsi per la notte, srotolando il tappeto si vide comparire davanti l'affascinante regina vestita dei suoi abiti più succinti. La leggenda vuole che Cesare e Cleopatra divennero amanti quella notte stessa.
Nella rivalità fra Cleopatra e Tolomeo XIII per il trono d'Egitto, Cesare restituì il potere a Cleopatra, mentre il fratello morì annegando nel Nilo durante una battaglia contro Roma. Cesare divenne così a tutti gli effetti padrone dell'Egitto, ma lo cedette a Cleopatra che nel frattempo aspettava da lui un figlio. I destini di Cleopatra e Cesare e dei due grandi Imperi si erano ormai uniti.
Il figlio fu chiamato Tolomeo Cesare -meglio conosciuto come Cesarione- e i sacerdoti si affrettarono a legittimare la sua ascendenza. Fu con il bambino in braccio che Cleopatra raggiunse Cesare a Roma, dove si trovò ad alloggiare in una proprietà privata dell'imperatore, gli Horti Transtiberini, e dove iniziò ad insediarsi nella vita mondana della capitale, suscitando ammirazione e adulazione da un lato e invidia e maldicenze dall'altro. 
Tuttavia l'idillio fra i due amanti ben presto terminò. 

Alle Idi di Marzo del 44 a.C. Giulio Cesare fu ucciso e Cleopatra si allontanò con il figlio discretamente da Roma. La regina, successivamente, si mantenne ai margini della lotta alla successione, che ebbe il momento culminante a Filippi dove a Marco Antonio andarono in premio le province d'oriente. Cleopatra seguì con molta attenzione le vicende politiche e ritenne che l'antagonista Ottaviano, ancora solo un ragazzo, avrebbe dovuto cedere di fronte ad un uomo fatto e a un grande soldato come Antonio. 

La regina rimase di nuovo affascinata dal carisma e dal prestigio di quello che, al momento, era l'uomo più potente dell'Impero e fu Antonio stesso a darle l'occasione di un incontro. 
Da Tarso, Antonio inviò una missiva con la quale invitava Cleopatra ad un convegno, per fare atto di sottomissione e per mettere in chiaro le accuse relative a presunti aiuti che la sovrana d'Egitto sembrava aver fornito a Cassio, lo sconfitto di Filippi. Cleopatra acconsentì ad essere ricevuta, ma la flotta che la accompagnava appariva molto diversa rispetto al seguito di un vassallo che si reca a rendere omaggio al proprio signore. La nave reale era quanto di più lussuoso qualsiasi cittadino di Tarso avesse mai potuto ammirare nel corso della sua vita: addobbi di straordinaria magnificenza, vele purpuree, remi laminati di argenti  e un baldacchino di oro massiccio, sotto il quale era distesa Cleopatra, vestita come una dea e circondata da un nugolo di splendide ninfe esotiche.
La regina non si mosse e si limitò a far pervenire ad Antonio il suo invito a bordo. Il rude condottiero, temprato da mille battaglie, furibondo e deciso a dare una lezione alla presuntuosa egiziana, fu costretto a fare i conti con la voce suadente e il magnetico fascino di Cleopatra, che lo conquistarono. Ciò che definitivamente lo fece capitolare fu il fatto che la regina, come narrato da Plutarco, «osservando che i suoi scherzi erano rozzi e pesanti, più da soldato che da uomo di corte, adottò, senza impaccio, lo stesso tono e rispose per le rime»
 
Dalla prima notte d'amore con Cleopatra, per Marco Antonio cominciò un periodo di delizie immaginabili. L'astuta regina, infatti, possedeva un discreto bagaglio di nozioni che sapeva abilmente sfoggiare e, oltre ad ammetterlo ad un tumultuoso circolo di feste, gli fece frequentare i dotti della città, in modo che il suo illustre amante si rendesse conto di non aver a che fare con una cortigiana, ma con una sovrana di discendenza divina, protettrice di arti e scienze
Antonio, annichilito dalla superiorità intellettuale della propria amata, continuò a dare spettacolo della propria rozzezza, come ci viene di nuovo raccontato da Plutarco, che narra di come il condottiero usasse passare molte ore in esercizi di lotta e, contemporaneamente, organizzare scherzi e burla di una sconcertante ingenuità. 

La relazione fra Antonio e Cleopatra, ormai di pubblico dominio, fu ufficializzata dai sacerdoti del Tempio con un matrimonio, però privo di valore fuori dall'Egitto; ma tanto bastava, infatti Cleopatra era nuovamente incinta. Nel 40 a.C. partorì due gemelli, ma Antonio non era presente, in quanto aveva lasciato l'Egitto da qualche mese dovendo intervenire in Siria contro i Parti per poi seguire da vicino quanto stava accadendo a Roma. 
Dopo la morte della volitiva moglie Fulvia, che aveva organizzato insieme al fratello Lucio un complotto ai danni di Ottaviano, Antonio riuscì finalmente a stipulare un accordo con il rivale, ma non ritornò in Egitto, come Cleopatra avrebbe sperato. Per avvallare il patto con Ottaviano stipulato a Brindisi, Antonio fu costretto a sposarne la sorella Ottavia, vedova da poco tempo, tranquilla e saggia: il completo opposto della sua amata regina. Ottavia tentò, per quanto potesse, di riportare Antonio sulla retta via e la loro unione fu poco dopo allietata con la nascita di Antonia. Cleopatra sembrava ormai dimenticata, ma di certo la sua ambizione non era altrettanto sopita. 



Fu il patto di Taranto del 37 a.C. a determinare un nuovo riavvicinamento fra i due amanti: ad Antonio erano necessarie truppe fresche e agguerrite per la spedizione contro i Parti che si apprestava ad allestire e solo Cleopatra era in grado di fornirgliene. Abbandonata Ottavia, Antonio si imbarcò a Corfù e ruppe ogni rapporto con Roma, invitando Cleopatra a raggiungerlo in Siria. Il loro incontro non fu lo struggente ritrovamento di due amanti separati, ma semplicemente quello di una sovrana e di un condottiero che avevano interessi comuni. Trascorsero l'inverno ad Antiochia e nella primavera del 36 a.C. la flotta era pronta a partire. La spedizione tuttavia si risolse in un disastro.

Antonio ritornò in Egitto insieme a Cleopatra che aspettava il suo quarto figlio, mentre a Roma la lettura pubblica da parte di Ottaviano del testamento di Antonio, che disponeva il passaggio ai figli avuti da Cleopatra anche dei territori romani, e la diffusione di piccanti aneddoti sulla vita dissoluta che egli teneva, decretarono la cessione del triunvirato
Nell'imminenza dello scontro decisivo fra l'Egitto e Roma, Cleopatra mise in mostra tutta la propria tempra, ma fu proprio questa foga a decretare la rovina di Antonio. La guerra, che durò oltre due anni, giunse allo scontro decisivo nelle acque greche di Azio, dove la sconfitta fu completa e ai due amanti non restò che la fuga. 
Rientrata ad Alessandria, mentre Antonio ormai completamente sfiduciato le annunciava la sua intenzione di ritirarsi a vita da eremita, Cleopatra giocò l'ultima carta a sua disposizione, tentando di scendere a patti e di sedurre Ottaviano. Ma il giovane era ben diverso sia da Cesare che da Antonio: glaciale e deciso, si rivelò inespugnabile alle seducenti arti femminili della regina. Il declino era ormai inevitabile.


Antonio, recuperando la fiamma degli antichi spiriti guerrieri, raccolse tutte le forze disponibili e tentò una sortita contro Ottaviano, ma la sua armata si sfaldò senza neppure combattere. In ritirata lo colse tuttavia il sospetto che i suoi lo avessero tradito per ordine della stessa Cleopatra e, sconvolto e furioso, si dette a cercarla nei meandri nel palazzo reale. La regina impaurita si nascose, cercando scampo dalla furia dell'amante e ormai decisa ad uccidersi. Nel caos, Antonio fu informato del ferale proposito, ma la notizia gli giunse deformata e, credendo che l'amata avesse già posto fine alla sua vita, egli, ormai in preda al delirio della disperazione, si trafisse con la spada. L'ultimo suo respiro fu raccolto dalla stessa Cleopatra.
La regina, ormai prigioniera nella sua stessa reggia, fu avvertita da Ottaviano che avrebbe fatto bene a non seguire l'esempio di Antonio; l'intento del vincitore era chiaro: Cleopatra sarebbe stato il suo trofeo più fulgido e prezioso, da esibire davanti a tutto l'impero in nome del suo trionfo. Per la donna che avrebbe voluto dominare il mondo accanto agli uomini da lei amati, prima Cesare e poi Antonio, essere trascinata in catene fra i dileggi della plebe romana era un inaccettabile prezzo da pagare per la sua vita.

Così Cleopatra si uccise, dopo aver inviato ad Ottaviano un messaggio in cui lo pregava di essere sepolta vicino ad Antonio. La leggenda narra che ella, per uccidersi, si servì di una piccola aspide, recatale di nascosto in un paniere di fichi, che un servo fedele le aveva portato eludendo la sorveglianza. Plutarco, infatti, racconta come «Cleopatra raccoglieva ogni sorta di veleni mortali, tra i più forti che ci fossero, e di ciascuno di essi provava se erano efficaci e nello stesso tempo indolori, propinandoli ai detenuti in attesa di morire. Poiché vide che quelli istantanei procuravano una morte subitanea, ma dolorosa, e i più dolci non erano rapidi, provò gli animali, osservandoli di persona mentre venivano applicati uno dopo l'altro. Fra tutti trovò quasi solo il morso dell'aspide, che induceva nelle membra un torpore sonnolento e un deliquio dei sensi, senza per questo arrecare spasimo o provocare gemiti; non appariva che un lieve sudore alla fronte, mentre le facoltà percettive svanivano, si rilasciavano dolcemente, e resistevano ad ogni tentativo di risvegliarle e richiamarle in vita, come chi dorme profondo». 
Tuttavia, recenti studi sono concordi nell'affermare come la regina, esperta in veleni, abbia ingerito una miscela di Oppio, Cicuta e Aconito, intimando alle sue servitrici di raccontare come la sua morte fosse dovuta al morso di un serpente: un suicidio certamente più degno di una sovrana di tale levatura, in grado di farla apparire ancor più come una reincarnazione divina agli occhi del suo popolo. Il morso dell'aspide, infatti, le avrebbe procurato una morte estremamente lenta e dolorosa, con un'agonia che si sarebbe potuta protrarre per più di trenta minuti.
Ciò che è certo, fu che il suo corpo fu trovato intatto, del suo colorito naturale, come se neppure la morte fosse stata in grado di scalfire un tale portentoso fascino. Nella quiete delle morte le spoglie minute di Cleopatra ritrovarono la maestà di cui aveva sognato di ammantarsi, qualora fosse riuscita a sedersi sul trono del più grande impero del mondo.
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Nelle immagini:
1) Monica Bellucci as Cleopatra
2) Elizabeth Taylor as Cleopatra
3) Portrait of Cleopatra 
4) Elizabeth Taylor as Cleopatra and Rex Harrison as Giulio Cesare
5) Elizabeth Taylor as Cleopatra and Richard Burton as Marco Antonio
6) Elizabeth Taylor as Cleopatra and Richard Burton as Marco Antonio
7) Cleopatra on the Terraces of Philae by Frederick Arthur Bridgman
8) Cleopatra testing poisons on Condemned Prisoners by Alexandre Cabanel
9) Cleopatra before Caesar by Jean Leon Gerome
10) Cleopatra's Barge by Frederick Arthur Bridgman