venerdì 19 agosto 2011

•Recensione: ITALO SVEVO - La Coscienza di Zeno

L'incoscienza di Zeno Cosini

«Già credo che in qualunque punto dell'universo ci si stabilisca si finisce coll'inquinarsi.  
Bisogna muoversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni.
Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri.»

Il primo decennio del XX secolo giocò un ruolo fondamentale nella vita di Aron Hector Schmitz, oggi più comunemente conosciuto con lo pseudonimo di Italo Svevo.
Alla vigilia della Grande Guerra, oltre al debutto nel mondo industriale, si verificò un altro evento capitale che avrebbe determinato inequivocabilmente la successiva formazione intellettuale e professionale dello scrittore triestino: Svevo conobbe James Joyce. Questi, giovane scrittore esule dall'Irlanda e professore alla Berlitz School di Trieste, tenne per Svevo diverse lezioni d'inglese e ne divenne intimo amico, inaugurando così un rapporto fervido di scambi intellettuali e destinato a durare negli anni a venire.
Joyce sottopose all'attenta analisi dell'amico le proprie poesie e i racconti di Gente di Dublino, mentre Svevo gli chiese a sua volta un parere sui romanzi pubblicati fino ad allora, ottenendone lusinghe e incoraggiamenti a non abbandonare l'attività letteraria.

Ulteriore motivo di condivisione e sostegno fra i due intellettuali si presentò alla fine della guerra, nel 1919, quando Italo Svevo, ormai sollevato dalla propria attività commerciale -la sua fabbrica di vernici venne requisita per ordine delle autorità austriache-, pose mano al suo terzo romanzo, La Coscienza di Zeno. Pubblicato nel 1923 l'opera non riuscì tuttavia a riscuotere alcuna risonanza fra i lettori italiani, motivo per cui un esasperato Svevo mandò il proprio scritto a Parigi, per ricavarne un appoggio dall’amico Joyce. Questi ne riconobbe immediatamente lo straordinario valore e adoperò tutti i propri mezzi per portarlo all'attenzione degli intellettuali francesi; fu così che si concretizzò il debutto internazionale di Svevo, destinato a conquistare larga fama in Francia e poi in tutta Europa, ma senza riuscire, nonostante tutto, a scalfire l'aura di diffidenza e di disinteresse formatasi intorno a lui in patria.

Questa indifferenza tutta italiana non era certo una novità per Italo Svevo: anche le precedenti pubblicazioni erano state marcate a fuoco dall'insuccesso più totale.
La prima, Una Vita, fu scritta in una fase arida e opprimente dell'esistenza dell'autore, nella quale Svevo era gravato dal peso di un mortificante lavoro impiegatizio, a cui era costretto a causa delle ristrettezze economiche in cui la propria famiglia versava in seguito a un investimento industriale sbagliato da parte del padre. La pubblicazione passerà sostanzialmente inosservata.
La seconda opera, Senilità, venne alla luce accompagnata da uno stato d'animo totalmente diverso: Svevo aveva sposato Livia Veneziani, cugina conosciuta al capezzale della madre, e il matrimonio aveva segnato una svolta fondamentale nella sua vita.

L'«inetto» Svevo, macerato da infinite insicurezze, trovava finalmente un terreno fertile su cui fondare le proprie radici, raggiungendo così il tanto agognato status di pater familias, punto di riferimento per il proprio focolare e dominatore del mondo domestico. La famiglia Veneziani, inoltre, era ottimamente inserita nel mercato internazionale, grazie a una fabbrica di vernici antiruggine per navi, e fu ben felice di accogliere nella propria ditta il nuovo genero.
Svevo si trovò così, improvvisamente, proiettato nel mondo dell'alta borghesia e da intellettuale si tramutò in dirigente d'industria, un uomo d'affari perfettamente a suo agio nel solido mondo del commercio, dove ciò che veramente contava erano il business e il profitto. Progressivamente Svevo abbandonò l'attività letteraria, iniziandola addirittura a guardare come qualche cosa di insidioso, malsano e sospetto, che poteva irrimediabilmente compromettere la sua nuova vita così produttiva; a tale decisione contribuì, senza alcun dubbio, il tremendo insuccesso di Senilità, caduto nel dimenticatoio subito dopo la pubblicazione, ancor più rapidamente che Una Vita. Il "Caso Svevo" scoppierà solo nel 1925 e lui, l'autore, colui che successivamente verrà innalzato nella rosa dei più autorevoli rappresentati del Novecento italiano, sarà costretto ad attendere quel momento per ben trent'anni.
Ma cosa aveva determinato la disfatta degli anni precedenti?

La fisionomia letteraria di Italo Svevo apparve fin dal principio ben diversa da quella della maggioranza degli scrittori a lui contemporanei. Come primo elemento discriminante vi erano i natali: Svevo, pur non essendo religioso, era di origini israelitiche e le radici ebraiche ebbero una notevole influenza sulla sua attitudine culturale complessiva; alcuni critici sostengono che l’ossessione di Svevo nel votare i protagonisti delle proprie opere all’inettitudine più incondizionata, fosse in realtà il risultato della concezione dell’autore stesso riguardo alla condizione dell’uomo ebreo nella civiltà europea dell’epoca.
Non vanno inoltre trascurate le caratteristiche peculiari dell’ambiente in cui Svevo arriverà a formarsi; Trieste, allora territorio dell’Impero Asburgico, era una città di confine, centro della cultura mitteleuropea, nella quale arriveranno a convergere i nuclei di tre civiltà completamente differenti: quella italiana, quella tedesca e quella slava. Ciò permise all’autore de La Coscienza di Zeno di fare propria una prospettiva intellettuale molto più ampia rispetto a tanti altri scrittori italiani e di presentarsi con uno pseudonimo volto a sottolineare la propria devozione sia alla cultura italiana (Italo) che a quella tedesca (Svevo).

Trieste, oltre ad essere un crogiuolo di popoli e identità, era anche una città prettamente commerciale ed era proprio alla borghesia imprenditoriale che Svevo apparteneva. Ben lontana era la figura tradizionale del letterato italiano, integro e schietto, la cui attività dominante era unicamente la scrittura, che gli consentiva di non occuparsi di nient’altro o quasi; la formazione di Svevo, innanzitutto, non fu rigorosamente umanistica, ma commerciale, e la propria cultura letteraria e filosofica fu determinata da un sentimento puramente autodidatta, caratteristica che condizionò anche la successiva vita professionale. Italo Svevo fu prima impiegato di banca e poi dirigente d’industria, mentre la letteratura non rappresentò per lui altro che un’attività collaterale, esercitata in parallelo alle incombenze quotidiane. Tutto ciò rende Svevo uno scrittore estremamente atipico, soprattutto per la sua epoca, fattore determinante per ciò che andranno a costituire e a rappresentare le sue opere.

La Coscienza di Zeno apparve sulla scena editoriale italiana venticinque anni dopo Senilità. Quel quarto di secolo trascorso era stato cruciale non solo nell’evoluzione interiore e letteraria di Italo Svevo, ma aveva portato con sé trasformazioni radicali anche nell’assetto europeo, nella concezione del mondo e nei movimenti culturali. In quei venticinque anni sull’Europa si era abbattuto il cataclisma della Prima Guerra Mondiale, ovvero la chiusura di un’epoca e l’esplosione di nuova era, fatta di avanguardie artistiche e letterarie, tramite le quali iniziavano ad affacciarsi nuove filosofie e teorie, fra cui quella della relatività e la psicanalisi. Questo è il fertile humus culturale dal quale scaturisce La Coscienza di Zeno, pregno di tutti gli elementi di un’epoca, fondato su soluzioni innovative e quasi mai sperimentate prima.

L’impianto narrativo, innanzitutto: Svevo abbandona il tipico modulo ottocentesco della terza persona, del romanzo narrato da una voce esterna e anonima, per addentrarsi nei meandri dell’io narrante e della confessione autobiografica. La “Coscienza” del titolo, infatti, non è altro che un memoriale, quello di Zeno Cosini che scrive su invito del proprio psicanalista, il fantomatico Dottor S. (ritratto di Sigmund Freud o alter ego di Svevo stesso), a scopo terapeutico e per agevolare la cura vera e propria. L’autore costruisce un espediente narrativo, immaginando che sia il Dottor S. stesso a pubblicare il manoscritto del signor Cosini, come vendetta nei confronti del paziente per essersi sottratto alla cura e per aver frodato il medico del frutto dell’analisi. Zeno, infatti, come spiegherà in un breve diario allegato al termine dello scritto, in seguito ai notevoli successi commerciali da lui ottenuti nel corso della guerra, si riterrà completamente guarito dalla “malattia” che lo aveva portato ad avvicinarsi alla psicanalisi.

La ricostruzione del passato di Zeno si articolerà in sei temi fondamentali, a ciascuno dei quali sarà dedicata una sezione del memoriale, talvolta molto ampia, in quanto ogni segmento arriverà ad abbracciare un’estesa fase della vita del protagonista. Dopo una rancorosa prefazione da parte del Dottor S. stesso e un preambolo in cui Zeno illustrerà i propri inutili tentativi di risalire con la memoria al tempo dell’infanzia, gli argomenti dei capitoli successivi tratteranno la dipendenza dal fumo e gli esperimenti per liberarsene, la tragica morte del padre, la genesi del proprio matrimonio, il rapporto con la moglie Augusta e con l’amante, la giovane e bella Carla ed, infine, la storia della devastante associazione commerciale con il cognato Guido Speier; al termine di tutto, un diario di poche pagine, nel quale Zeno sfogherà il proprio rancore verso lo psicanalista e documenterà i momenti salienti della propria presunta guarigione.

La narrazione di eventi di tale portata, tuttavia, sarà tutt’altro che lineare: la voce di Zeno guiderà il lettore avanti e indietro nel tempo, in accordo con gli sforzi da lui tentati per ricostruire il proprio passato; eventi contemporanei potranno essere così distribuiti in più capitoli successivi e vi saranno ampi sbalzi temporali fra un pagina e l’altra. In questo modo anche l’uso del tempo si alienerà totalmente dalla tradizione ottocentesca, dove gli eventi si presentavano unicamente in ordine cronologico, e darà origine a quello che gli inglesi successivamente chiameranno “stream of consciousness, il flusso di coscienza, che diverrà il principale veicolo di successo per scrittori del calibro di James Joyce, Virginia Woolf e Jack Kerouac.
Il tempo del vissuto, ovvero il passato, si intreccerà intimamente con il tempo del racconto, il presente, nel quale uno Zeno ormai anziano cercherà di raccogliere le fila della propria memoria.

Attraverso il suo “monologo” il protagonista ricostruirà così innumerevoli aspetti della sua vita passata, componendo ritratti di personaggi da lui conosciuti e commentando i vari accadimenti che lo vedranno partecipare sia in qualità di oggetto che di soggetto. Tuttavia non è al vero e spontaneo germinare dei pensieri a cui il lettore assiste, ma al suo rimaneggiamento: Zeno riordinerà le proprie reminiscenze secondo la loro pertinenza nei confronti dell’argomento trattato, e le metterà per iscritto, fattore altamente discriminante; mettere parole su carta presuppone una rielaborazione logica e perciò non sarà l’io più profondo ad emergere. Zeno, infatti, manipolerà le vicende a suo piacimento, erigendo barriere e censure e distorcendo i punti di vista secondo i suoi fini.

L’«inetto» e nevrotico Zeno è chiaramente un narratore inattendibile. Il primo a denunciarlo è il Dottor S. stesso, nella prefazione: «Sembrava tanto curioso di sé stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!». L’intero manoscritto si tramuta così in una colossale operazione di autogiustificazione, volta a dimostrare l’innocente ruolo di Zeno in tutte le situazioni narrate, dal rapporto con il padre a quello con la moglie e l’amante, fino ad arrivare all’amicizia-rivalità con Guido Speier; in realtà ciò che Zeno tenta in tutti i modi di celare, emerge prepotentemente da ogni singola pagina: non vi è nulla di ingenuo o onesto, gli impulsi reali del protagonista sono regolarmente ostili e aggressivi, a volte addirittura omicidi. Zeno stesso arriverà ad auto-ingannarsi, mentendo sistematicamente: la negatività dei suoi impulsi profondi genereranno in lui tormento e senso di colpa, per cui sarà l’inconscio stesso ad avviare un’operazione di auto-assoluzione.

I momenti cruciali della vita di Zeno arriveranno così ad essere governati da inclinazioni subcoscienti, le stesse che lo porteranno a iniziare a fumare di nascosto i sigari del padre e a scegliere come moglie Augusta, nell’attimo immediatamente successivo al rifiuto delle di lei sorelle, diniego sprezzante da parte della bella Ada e giustificabile per la più giovane Alberta. La personalità di Zeno Cosini si rivelerà, quindi, un intreccio indistricabile di motivazioni oscure e di ambiguità senza speranza di risoluzione, spesso totalmente opposte a quelle dichiarate consapevolmente.

Fra gli snodi fondamentali vi sarà il rapporto con il padre, paradossalmente l’origine stessa dell’«inettitudine» del protagonista: Zeno è tale appunto perché non ha alcuna speranza di coincidere o quantomeno avvicinarsi all’immagine paterna, solida e virile, questo a causa sia di ragioni individuali che storiche, prima fra tutte la crisi che l’individuo borghese, a inizio ‘900, si ritroverà a vivere.
Zeno ha un assoluto e imperante bisogno di integrarsi nella società benestante a cui appartiene e pertanto di non sentirsi più “malato” ma “normale”, status raggiungibile solo a patto di arrivare ad incarnare la figura del buon padre di famiglia e dell’affidabile uomo d’affari.
Sarà proprio questa disperata ricerca dell’ordine più banale a portare Zeno a sposare la mediocre Augusta e, al contempo, a proclamarne non solo l’amore, ma anche la più fulgida ammirazione per la sua «perfetta salute». Augusta si rivelerà un’impeccabile sostituta della figura materna, veicolo di benessere stillante la sicurezza e la dolcezza di cui Zeno sovente avrà necessità.

Infine, come in ogni romanzo di Svevo, l’«inetto» si ritroverà ad affrontare la figura del rivale, incarnata nel cognato Guido Speier, la sua esatta antitesi. Guido verrà descritto come colto e affascinante, sicuro di sé stesso, magnifico suonatore di violino (al contrario di Zeno, in grado unicamente di strimpellare melodie terribili) e, fatto ancor più importante, tombeur de femmes; Guido, infatti, riuscirà a conquistare e sposare la bella Ada, sorella di Augusta e primo sogno e desiderio dell’«inetto» rivale. Zeno, inizialmente, manifesterà un’ostilità scoperta nei confronti di Guido e arriverà addirittura a soffocare l’impulso di ucciderlo, trattenendosi dal spingerlo giù da un muretto durante una loro passeggiata notturna.
Successivamente, i sensi di colpa per questi istinti a stento repressi, inaccettabili per la sua coscienza, lo porteranno a seppellire i suoi veri sentimenti sotto una maschera di ostentazione, inscenando un patetico e improbabile affetto fraterno. Anche a distanza di molti anni, al tempo di redigere il suo memoriale, l’anziano Zeno non sarà ancora disposto ad ammettere il suo odio e continuerà a protestare di aver amato Guido Speier più di un fratello.

Eppure apparirà fin troppo evidente, dalle parole del protagonista stesso, come, nel momento in cui Guido si ritroverà a precipitare in caduta libera verso la rovina più totale, Zeno sarà sì al suo fianco, ma unicamente come spettatore impassibile del suo tragico fallimento. Dopo il suicidio dello Speier, l’inconscio dell’«inetto» arriverà a convincerlo di essere stato un “compagno” magnanimo e affettuoso e proprio nella dedizione ossessiva che Zeno manifesterà nel voler onorare la memoria dell’amico, si evidenzierà tutto il suo odio: il postumo salvataggio del patrimonio di Guido decreterà il vero trionfo di Zeno, rivelando tutta la fragilità di un nemico tutt’altro che onnipotente, pietosa vittima dei suoi stessi errori. L’episodio del funerale, ovvero quando Zeno narrerà di aver preso parte al corteo funebre sbagliato, ne sottolineerà l’ostilità latente, ne rivelerà gli impulsi più profondi e l’euforia che pervaderà il protagonista, nell’attimo successivo alla realizzazione del madornale errore, dimostrerà come l’«inetto» vittorioso avverta tutta la propria forza e la propria “sanità” nei confronti di un antagonista ormai incatenato all’ineluttabilità della morte.

Tuttavia, La Coscienza di Zeno non arriverà a costituire soltanto una spietata operazione di smascheramento, manifesto di falsa moralità e fulgida testimonianza di autoinganno; il fattore più illuminante e ammirevole dell’intera opera di Svevo sarà costituito dal mutamento di prospettive, che porteranno Zeno stesso ad essere non solo “oggetto” di critica, ma anche “soggetto”. L’«inettitudine» del protagonista si rivelerà quindi un ottimo pretesto per osservare con tutta comodità la presunta “normalità” del prossimo, in particolare quella dei membri della classe borghese in cui Zeno vorrebbe identificarsi; la “malattia” del protagonista fungerà da strumento straniante, ingegnoso dispositivo atto a portare alla luce l’inconsistente “sanità” degli altri che, ad una visione superficiale, sembrano vivere perfettamente soddisfatti, senza mai vacillare nella solidità delle proprie certezze o dei propri principi.

In questo modo il virile padre di Zeno si trasmuterà in un essere debole e indifeso e il ritratto che ne verrà dipinto sarà quanto mai cattivo e corrosivo. Questi, riluttante persino ad accettare che la terra sia in movimento, dimostrerà tutta la chiusura tipica dei “normali”, cristallizzati nelle proprie convinzioni e gerarchie, in realtà gli autentici veleni che arrivano a consumarli; e così arriverà a realizzarsi il paradosso, ovvero che saranno i “sani” ad assumere il ruolo di veri “malati”.
Allo stessa maniera la soave bontà di Augusta, a proprio agio solo all’interno del “nido” familiare e sorretta da una cieca fiducia nelle autorità, vere o presunte, apparirà quale espressione della più biasimevole ottusità, che la renderà incapace di valutare e ragionare in maniera critica, cieca a tal punto da essere perfino impossibilitata ad accorgersi dei sistematici tradimenti del marito.

Augusta costituirà l’emblema della “normalità” borghese, piantata al centro del mondo e irremovibile dalla sua posizione; al contrario, Zeno si rivelerà come un essere fluido, incostante e inafferrabile, caratteristiche che lo condanneranno per sempre a restar fuori da quel mondo “normale” e a valutare la realtà che lo circonda con diffidenza e malessere.
Lo sguardo di Zeno sconvolgerà le gerarchie e renderà ogni identità una facciata, ogni figura una maschera fumosa e indistinta, incerta e ambigua, convertendo la sanità in follia, la forza in malattia. Nel rivoltare le verità e nello stravolgere i fatti, Zeno sarà al contempo cieco e chiaroveggente, costruirà alibi e rivelerà le menzogne più subdole: mistificando la realtà offrirà la giusta chiave per far venire a galla la verità di ciò che lo circonda.

Davanti a una realtà deformata e deviata a tal punto, non vi è neppure una voce, un narratore onnisciente che riporti l’ordine, che giudichi gli avvenimenti in base a valori determinati e ineluttabili. In questo folle caos si continuerà ad ascoltare solo la coscienza di Zeno, che procederà nella propria narrazione senza alcun punto di riferimento: starà unicamente al lettore stabilire se ciò che è scritto possa essere identificato come «verità» o «bugia» o, molto più probabilmente, tutt’e due le cose insieme.

1 commento:

  1. "Ultima sigaretta" :)
    Ecco cosa ricordo de "La coscienza di Zeno", libro letto oltre 20 anni fa, su suggerimento (obbligatorio) di un (o una) prof. Ammetto che a quel tempo l'ho odiato e non vedevo l'ora di finirlo.
    Forse è una lettura che andrebbe fatta con ben altre motivazioni.
    Complimenti per l'articolo.

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